AD GENTES   Calisese di Cesena 31.05.25

Padre Francesco Ielpo, delegato della Custodia di Terra Santa per l’Italia, racconta la sua esperienza missionaria, pur dichiarandosi inizialmente “non in prima linea”. Dopo un primo desiderio di partire per Gibuti, gli viene chiesto di occuparsi della Terra Santa, dove scopre la missionarietà come vocazione essenziale dei frati minori. Ispirandosi a San Francesco d’Assisi, che volle vedere con i propri occhi i luoghi dell’Incarnazione, Padre Ielpo riflette sulla missione come “esserci”: una presenza umile, mite, che non fa proselitismo ma testimonia Cristo con la vita. Racconta la missione tra culture e religioni diverse, anche in contesti di guerra come la Siria e Gaza, sottolineando il valore della fedeltà e della vicinanza al popolo, anche quando non si può fare nulla se non restare. Il missionario diventa così un segno visibile della Chiesa, e il primo atto evangelico è lasciarsi accogliere. La testimonianza ultima resta quella del dono di sé, anche fino al martirio.

 

Buongiorno a tutti e grazie dell’invito, anche se sono un po’ imbarazzato perché si tratta di fare una testimonianza sulla missione, e non è che io mi senta tanto missionario o, comunque, non in prima linea. Cercherò di essere molto semplice e di raccontare quello che è la mia esperienza e quello che mi è accaduto in questi ultimi 12 anni, da quando ho cominciato ad occuparmi di Terra Santa e da quando i miei superiori mi hanno chiesto questo.

Tutto è iniziato nel 2013, io finivo la mia esperienza di parroco a Varese e avevo nel cuore il desiderio di fare esperienza missionaria, di verificare la mia vocazione missionaria anche dopo che, per una serie di circostanze, avevo incontrato il vescovo di Gibuti. Nessuno sa dov’è Gibuti, è un piccolo paesino nel Corno d’Africa totalmente islamico, dove c’è un nostro frate missionario, che poi nel tempo è diventato anche vescovo. Lui mi aveva invitato ad andare a trovarlo e dopo questa esperienza di un mese lì mi era proprio nato il desiderio di poter verificare questa vocazione e di chiedere di stare a Gibuti per 3 anni. I superiori mi risposero che la coperta era un po’ corta, se la tiriamo da una parte si scoprono i piedi e viceversa. Però mi proposero di occuparmi di Terra Santa, prima in Lombardia, poi nel Nord Italia e adesso, come delegato del Custode di Terra Santa, per l’Italia. Mi colpisce perché il tema della missione, per noi frati francescani, frati minori, è proprio la ragion d’essere del nostro ordine. Spesso si sente dire che il cuore della nostra vocazione come frati minori è la fraternità. In realtà la fraternità è la modalità con cui noi siamo chiamati a essere missionari.

Perché quando poi si mette come fine ultimo quello della fraternità si può correre il rischio anche di vivere beatamente dentro le quattro mura di un convento sempre più comodo, sempre più agiato, sempre più con tutto, e con la propria autonomia, mentre il tema della missionarietà è proprio il banco di prova dell’esperienza che stai vivendo, di ciò che ti ha preso, a tal punto che questa sovrabbondanza diventa necessità di andare. E difatti il verbo importante per Francesco, nella Regola – e secondo gli studiosi la prima Regola approvata dalla Chiesa, quindi nel 1223 e prima ancora nel 21, quella che poi non è stata sottoposta all’approvazione – parla in termini di “andare”, cioè il verbo “andare” in una regola di un ordine religioso. E questo “andare” Francesco lo impara dalla propria esperienza. Lui nel 1217 parte per andare in Terra Santa, siamo nel periodo della quinta crociata. La storia la conoscete tutti, però mi ha sempre colpito il perché lui vuole andare. Fondamentalmente, non vuole andare per chissà quale ragione umanitaria, ma lui vuole andare perché vuole vedere con i propri occhi – quindi quella carnalità di cui si parlava prima – vedere con i propri occhi i luoghi che hanno accolto, anche geograficamente, fisicamente, Cristo Gesù. È un amore sviscerato per l’umanità di Cristo. La Terra Santa in fondo è questo, è l’incrocio di due coordinate, la coordinata temporale e la coordinata spaziale dell’Incarnazione. Nel momento in cui Dio decide di incarnarsi, ha necessariamente bisogno di stabilire un tempo e un luogo. Del resto lo vediamo anche noi oggi. Noi siamo qui, ci siamo potuti incontrare perché sapevamo la coordinata temporale, sabato 31 maggio alle ore 11:00, un giorno e un orario, ma questo giorno questo orario non sarebbe stato sufficiente per permettere questo incontro. Perché potevamo stare ciascuno nella propria casa oppure girare in tutto il mondo. Viceversa, ci voleva anche la coordinata spaziale, Villa Marta a Cesena. L’incarnazione è proprio questo. Noi durante l’anno liturgico celebriamo lo svolgersi del tempo, della coordinata temporale e nel sacramento diventiamo contemporanei anche di un luogo, sacramentale. La Terra Santa è proprio anche la geografia di questa salvezza e Francesco voleva andare…

E’ capitato a tutti, no? Quando vi siete innamorati, avete conosciuto la vostra futura moglie o futuro marito, poi volevate saper tutto di lui. Andavate anche a vedere dov’è nato, dove è cresciuto, chi frequentava, eccetera. E così anche Francesco. E da quel momento lui fa un’esperienza in una cultura diversa, in una religiosità diversa, che è appunto quella islamica. Una esperienza dove c’è una forte contrapposizione, c’è una guerra in corso, la crociata, che, nel momento in cui Francesco la visita, è atroce E la cosa che mi colpisce, come metodo, è che lui impara dall’esperienza. Sia la prima Regola, sia quella che poi viene approvata dalla Santa Sede, non sono state scritte a tavolino, cioè lui non si è messo con qualche esperto e ha detto “Adesso scriviamo come devono vivere, come devono essere missionari i frati”. No, ogni anno si trovavano a un Capitolo e si raccontavano dell’esperienza e da questo nasceva una Regola. C’è prima la vita e poi la regola, ma nello stesso tempo senza una regola non ci può essere una vita che sia tale da poter essere una vita evangelica.

Ebbene, Francesco torna e la prima cosa che colpisce è che lui di questa esperienza per la Terra Santa, anche dell’incontro con il sultano che è tanto citato e tanto famoso, non ne parla, l’unico che non ne parla mai è proprio Francesco. E questo è molto significativo perché mi fa pensare che quell’esperienza è come se tu non la potessi comunicare a parole, oppure le parole non sarebbero mai sufficienti per dire quello che è stato un incontro, quello che tu hai capito, e forse lo puoi soltanto comunicare attraverso la tua vita, prima ancora che con degli scritti. Sta di fatto che però questo ha cambiato la vita di Francesco. C’è un prima e un dopo. Anche gli storici raccontano di un Francesco prima del viaggio e di un Francesco dopo, perché comunque quell’esperienza cambia anche il suo modo di pensare, di concepirsi come fraternità. Il capitolo 16 della nostra Regola – che noi chiamiamo “non bollata” perché non è stata sottoposta all’approvazione – ma che è molto carismatica perchè nasce da questa esperienza della prima comunità, riguarda proprio coloro che vanno ‘in missione’ – uso un’espressione che all’epoca non era possibile. Il capitolo si intitola “Di coloro che vanno tra i saraceni e gli altri infedeli”, per cui c’è proprio una missione tra coloro che non sono cristiani. All’epoca non era pensabile che ci fosse un essere al mondo che non fosse credente. Quindi quando si dice ‘infedeli’ vuol dire che non hanno la fede in Cristo. E dice: “Dice il Signore, ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe. Perciò qualsiasi frate che vorrà andare tra i saracini e gli altri infedeli, vada con il permesso del suo ministro e servo. Il ministro poi dia loro il permesso e non li ostacoli, se vedrà che sono idonei ad essere mandati. Infatti dovrà rendere ragione al Signore se in queste cose, come in altre, avrà proceduto senza discrezione”. C’è prima di tutto la verifica. La verifica che sia davvero una vocazione, che non sia un capriccio, che sia quello che il Signore vuole. “I frati poi – ecco il cuore – che vanno tra gli infedeli possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose …., e siano battezzati e si facciano cristiani. Poiché se uno non sarà rinato per acqua e Spirito Santo, non potrà entrare nel Regno”.

E poi aggiunge che si ricordino i frati che hanno già dato la loro vita per il Signore e che quindi devono essere disposti a perderla e anche a donarla, la testimonianza ultima è quella del martirio. E mi colpisce perché questo è frutto della sua esperienza. Capisce che lì il metodo, come diceva anche il documento del Concilio Ecumenico Vaticano II, e anche don Giussani, è il metodo del dialogo. O, per Francesco, dell’esserci, della presenza. Voi andate e la prima testimonianza, la prima missione è esserci, starci dentro in una maniera mite, umile, semplice – e c’è una cosa che voglio sottolineare – “soggetti a ogni umana creatura da minori”. Infatti il nostro nome è frati minori, da minori, con una identità chiara, non annacquata. Siamo cristiani, ma siamo in mezzo a voi. E mi colpisce perché la prima missione è quello di esserci. Se ci sei, se c’è una comunità, se ci sono dei battezzati, c’è Cristo.

E qui mi permetto di fare questa riflessione che mi sta accompagnando in questi anni, ma che non ha la pretesa di essere verità assoluta. Si dice che Francesco abbia incontrato il sultano. Ma noi, cosa siamo lì a fare? A volte siamo in contesti in cui non si può far nulla.

Per secoli i frati sono stati in Terra Santa e in alcuni casi non potevano neanche uscire dal Santo Sepolcro. Se voi siete stati al Santo Sepolcro, in pellegrinaggio, sapete che tutti i giorni c’è una processione alle 4:00 o alle 5:00, a seconda dell’orario solare o legale, dove si compiono 14 stazioni. C’è una processione dei frati tutti i giorni da 600 anni e si fa una specie di Via Crucis dove ci sono tutte le stazioni, a partire dalla Flagellazione – quindi c’è una colonna che la ricorda, anche se non è geograficamente avvenuto lì. E perché questa processione nasce? Perché per un certo periodo i pochissimi pellegrini che attraccavano ad Acco, San Giovanni d’Acri, venivano scortati fino a Gerusalemme e l’unica cosa che c’era e che potevano visitare era la chiesa del Santo Sepolcro.

Venivano accolti, chiusi dentro, stavano tutta la notte e il giorno dopo facevano questa processione, perché chi andava aveva diritto a fare un pellegrinaggio dove poter pregare in tutti i luoghi geografici e così questi luoghi erano stati ricostruiti dentro la basilica.

Ora, l’esserci dà la possibilità che ci sia la Chiesa, che ci sia cioè Cristo. E dico questo: Francesco incontra il sultano, ma dopo cos’è che è cambiato? Si è convertito? Ci sono delle leggende che dicono che poi, prima della morte, abbia chiamato i frati per farsi battezzare, ma anche se non fosse, come probabilmente non è, cos’è che ha portato a casa Francesco? Va bene, ha ottenuto il ‘lascia passare’ per i Luoghi Santi, ha anche portato a casa la vita, perché chiunque si presentava davanti al sultano sarebbe stato ucciso. Ma dal punto di vista di evangelizzazione, di missione, cos’è che è cambiato? Cosa è successo?

Su questo mi ha illuminato un esegeta, un biblista, che parlando del capitolo 25 di Matteo – quel giudizio finale sulla carità – in maniera intelligente dice che “voi verrete giudicati quando avrete dato un bicchiere d’acqua a uno di questi fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”, vi ricordate? E quando non l’avete fatto non l’avete fatto a me. Noi diciamo che quando abbiamo la carità tra di noi, quando aiutiamo anche i non cristiani, lo stiamo facendo a Cristo. Fermo restando che questa interpretazione è corretta, e non voglio metterla in discussione assolutamente, però gli esegeti dicono che quando Matteo parla di fratelli più piccoli parla dei cristiani e quindi potrebbe essere che questo giudizio finale riguarda tutti coloro che non sono cristiani e che verranno giudicati in base a quello che avranno fatto ai cristiani. E mi piace perché dunque, anche lasciarsi accogliere e ospitare dal sultano è stato un gesto di evangelizzazione, perché ha dato la possibilità anche al sultano di fare un gesto di accoglienza a Cristo, cioè a Francesco. Allora, una presenza per noi frati minori, anche se poi abbiamo tutti i limiti, tutte le fatiche, dovrebbe proprio essere questo. Il primo modo di essere, di testimoniare è di lasciarsi accogliere dall’altro. E perché tu possa essere accolto non devi far paura, devi essere appunto minore, devi essere piccolo e non sei tu il protagonista, non sei tu che fai qualcosa per l’altro, innanzitutto, ma lasci che l’altro faccia qualcosa per te.

Poi questa presenza è anche una presenza che testimonia tutta la carità di Cristo per l’uomo. E allora arrivo a degli esempi concreti. Il primo è che io ho avuto modo di stare molto in Siria durante la guerra, dal 2017 in poi. E la cosa che mi ha colpito tantissimo è che nel 2016 un parroco di questi due villaggi, uno è Jacubieh, fu rapito due volte dai jihadisti di al Nusra (adesso il loro capo ha cambiato veste ed è diventato il presidente della Siria). La prima volta riuscì a scappare, la seconda fu più complesso, subì delle violenze, delle torture, rimase anche traumatizzato psicologicamente e dovevamo portarlo via. All’epoca padre Pizzaballa era ancora Custode di Terra Santa e non se la sentiva, non aveva il coraggio di chiedere a un altro frate di andare a fare il parroco in quel villaggio, anche perché in quel villaggio dove erano rimasti soltanto alcuni latini, armeni e ortodossi, gli unici sacerdoti erano due frati, uno in un villaggio, padre Hanna, che adesso è diventato vescovo, e questo padre che è stato rapito. Pizzaballa non aveva il coraggio di mandarne un altro perché voleva dire mandarlo proprio in un punto veramente pericoloso. E allora invia una richiesta a tutti i frati, ai 280 frati missionari in Terra Santa, per valutare cosa fare. In seguito scrive una lettera dove si dice commosso della risposta unanime di tutti. “La nostra missione, il nostro compito è stare, esserci e quindi bisogna mandare qualcuno. “Siamo qui per testimoniare, essere, il buon pastore che, a differenza del mercenario, quando vede arrivare il lupo non scappa. E il buon pastore è sempre disposto a dare la vita per le sue pecorelle. E il buon pastore non calcola se le pecore sono tante o sono poche – si parlava di circa 300 cristiani tra i due villaggi – E il buon pastore non calcola se le pecore sono giovani o sono anziane” – erano solo anziani perché nel momento in cui è arrivato al Nusra aveva detto, “Soltanto gli anziani possono rimanere, i giovani via tutti. Se rimangono muoiono”. E fu mandato un frate che è ancora lì, che all’epoca aveva 32 anni, palestinese, che chiedeva di andare.

Dopo oramai 11 anni questi due villaggi sono stati aperti, adesso si riesce a passare, …. Ma la cosa che mi colpì è questa, che tu sei lì come presenza e la prima missionarietà, ancora prima delle opere caritative e gli aiuti umanitari – poi c’era bisogno di tutto, potete immaginare – era quello di esserci. E dico questo perché c’è una cosa che è passata un po’ inosservata e che voglio farvi notare. Noi sappiamo che nella striscia di Gaza il Papa chiamava tutti i giorni il parroco Romanelli. Ma prima ancora che Romanelli rientrasse c’era il viceparroco, c’erano le suore del Verbo Incarnato e anche le suore di Madre Teresa. Dopo il 7 ottobre tutti i religiosi, compreso il parroco, il vice parroco – il parroco non c’era perché era a Roma per accompagnare la nomina di Pizzaballa a Cardinale. Ma tutti questi religiosi avrebbero potuto, il giorno dopo, presentarsi alla frontiera con il passaporto straniero, perché non sono palestinesi, e uscire. Nessuno, neanche le suore più anziane, hanno scelto di abbandonare. Sapete quanti erano i latini il 7 ottobre del ‘23? Cioè latini cattolici, nostri, poi ci sono anche gli ortodossi e tutti gli altri, in tutto i cristiani erano 1017 al 7 ottobre, 1017 tra latini, ortodossi, armeni e protestanti. I cattolici erano 135. Nessuno ha lasciato.

Poi vedi che a Gaza fanno le cresime, i battesimi, che continuano a celebrare, che continuano a rimanere attaccati a quella chiesa, quel compound dove vivono in una promiscuità incredibile, dove nelle aule della scuola hanno tirato delle piccole tende, e ci vivono famiglie intere, oltre al fatto che non c’è cibo e, a volte, devono andare a cercare l’erba pur di avere qualcosa da mangiare…  e quando bombardano si rifugiano in chiesa, cominciano a pregare, perché c’è Cristo buon pastore che è rimasto.

Quante famiglie ho incontrato ad Aleppo quando c’era parroco padre Ibrahim, mi mandava nelle famiglie che parlavano inglese, dato che non so l’arabo. C’era una giovane coppia con una bambina. Lui insegnante di francese per una ONG, si sono conosciuti nel 2014 mentre le bombe cadevano come pioggia. Quando si sono innamorati hanno detto, scappiamo, usciamo e facciamoci una famiglia, una vita da qualche altra parte. E allora la domanda è stata, “Ma perché siete rimasti? Perché avete fatto famiglia qui? Perché avete una bambina” – poi adesso è arrivata la seconda… E loro dicono, “Perché quando abbiamo fatto i calcoli per andare, e diventare profughi, migrare, ci siamo accorti che in parrocchia i frati non sono andati via e che se un domani ci sarà da ricostruire il paese, noi vogliamo essere tra questi”. 

Allora la speranza non la dà mai una dottrina, un bel pensiero o anche un ragionamento convincente. Non sarà mai questo, e neanche la paura si vince con un discorso, è soltanto una presenza.

Ecco, io credo che, soprattutto in quella terra, la prima grande missione è quella della presenza, dell’esserci, che poi diventa anche costruzione e custodia, non solo dei luoghi santi, che potrebbero anche non esserci più per tante ragioni, ma la presenza di Cristo ci sarà sempre fino a quando c’è un battezzato. E poi vorrei dire ancora due cose. La prima riguarda il compito, non solo dei francescani, ma dalla Chiesa in Terra Santa, la missione, e lo dico attraverso un’immagine. Chi di voi è stato a Nazaret sa che sotto i portici ci sono tutte le raffigurazioni delle Madonne da tutto il mondo. Nel 1989 i vescovi di Germania portano questa immagine della patrona della Germania. Dal punto di vista artistico non è un granché, però è bella perché c’è questa Madonna, che abbraccia due bambini come se avesse due figli, un maschio e una femmina. Però questi due fratelli, sono separati da un muro. Rappresentava la Germania dell’epoca, divisa tra est e ovest, e però dice che la Madonna, figura immagine della Chiesa, ha a cuore e abbraccia sia chi sta da una parte che dall’altra. E il muro, in questa raffigurazione, non arriva fino a terra, ma a un certo punto finisce e i due fratelli sotto il muro si tengono la mano. Ecco, questa immagine dice che cos’è la presenza, non solo della Custodia di Terra Santa, ma della Chiesa in Terra Santa. Dopo qualche mese il muro di Berlino è crollato, è stato un po’ profetico, però altri muri sono stati costruiti, vengono costruiti continuamente, e non solo fisicamente. Ecco, credo che la Chiesa abbia proprio in Terra Santa una missione specifica, che è quella di abbracciare chi sta da una parte e dall’altra.  Oggi più che mai in questo contesto di odio crescente, di una spirale di violenza, di sospetto, di impossibilità di entrare in questo dialogo, essere quella presenza che ha a cuore gli uni e gli altri.

È l’ultima cosa che voglio dire per la mia esperienza, e che il mio padre spirituale, chi mi accompagna e mi aiuta mi continua a dire, è che la prima opera sono io, la mia conversione. Di fronte a tutto quello che accade c’è un senso di impotenza inimmaginabile, una sproporzione incredibile, però la prima opera sono io, la mia conversione, il mio entrare proprio e lasciarmi invadere realmente dalla carità di Cristo. E questo ha a che fare con l’essere mandati. Quando ho letto la prima volta All’origine della pretesa cristiana mi ha colpito moltissimo come Giussani parlava di Cristo come il mandato dal Padre. “Come io sono stato mandato dal Padre, anch’io mando voi”. Perché insisto su questo? Perché non può esserci missione senza un mandato, senza qualcuno che ti manda e senza un rapporto con chi ti manda. Tre settimane fa c’era un problema, io chiamo il Ministro Generale e dovevamo trovare una soluzione a questo problema. Io ringrazio il cielo che c’è un rapporto così filiale-paterno con chi mi ha mandato, con chi mi ha dato la missione, perché senza questo rapporto non potrei esistere, cioè soccomberei, oppure diventerei un funzionario. Gli presento il problema, ma l’istante dopo non abbiamo parlato del problema. Io gli ho raccontato di come stavo vivendo io, di cosa stava accadendo nella mia vita, di cosa stavo imparando, di cosa Cristo diceva a me attraverso quello che stavo vivendo. Lui ha cominciato a parlare di sé, di quello che lui sta imparando attraverso il suo servizio, la sua missione, e siamo stati un’ora al telefono e non abbiamo parlato del problema, abbiamo parlato dell’opera che è lui e che sono io. E il mattino dopo alle 6:30 mi mando un messaggio dicendo: grazie della condivisione di ieri sera. Ecco, io credo che senza questo rapporto con chi ti manda non può esserci missione in senso cattolico.